Espropri: criteri per la determinazione del valore di un appartamento – Cass. n. 27934/2018

Con la recente ordinanza in esame la Corte di Cassazione si sofferma in modo approfondito sulle problematiche connesse alla determinazione del valore di un appartamento in caso di esproprio integrale, questione sottoposta alla sua attenzione a seguito di un’impugnazione della sentenza della Corte d’Appello principalmente per due motivi.
Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 32 e 38 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, dell’art. 42 Cost. e dell’art. 17 della Carta dei Diritti Fondamentali della Unione Europea, sostenendo che l’importo liquidato dall’ordinanza impugnata non corrisponde alla nozione di giusta indennità emergente dalle predette disposizioni, in quanto inidoneo a compensare l’intera diminuzione patrimoniale da lei subìta: premesso infatti che l’appartamento espropriato era l’unico di sua proprietà ed era destinato a sua abitazione, afferma che l’importo riconosciutole risulta insufficiente per l’acquisto di un nuovo immobile, non consentendole di sostenere le spese di agenzia e del rogito notarile, quelle occorrenti per il trasloco e gli allacciamenti delle utenze. Precisato inoltre che l’indennità, pur essendo legata al valore di mercato dell’immobile espropriato, deve costituire un ristoro integrale del sacrificio imposto al diritto di proprietà, e deve quindi rispondere a criteri di proporzionalità, ragionevolezza ed equità, osserva che nella specie la privazione della proprietà ha avuto per lei conseguenze rovinose, non disponendo ella di altri immobili ed essendo disoccupata e priva di reddito, nonché affetta da problemi di salute.
Aggiunge che, nella determinazione del valore di mercato, l’ordinanza impugnata non ha considerato che l’asportazione di alcuni materiali di finitura dell’appartamento non poteva costituire motivo di deprezzamento dello immobile, in quanto consentita dall’art. 32 cit. e comunque autorizzata dalla Amministrazione comunale.
La Suprema Corte ritiene il motivo infondato innanzitutto perchè la pretesa al riconoscimento di un’indennità superiore al valore di mercato dell’immobile espropriato basata su esigenze soggettive e totalmente prive di supporto probatorio.
Inoltre art. 38 del d.P.R. n. 327 del 2001, nel disciplinare la liquidazione della indennità dovuta per l’espropriazione di costruzioni legittimamente edificate, prevede che la stessa dev’essere commisurata al valore venale, da determinarsi, ai sensi dell’art. 32, sulla base delle caratteristiche che il bene espropriato presentava al momento dell’accordo di cessione o alla data di emanazione del decreto di esproprio. La nozione di «valore venale» cui ha inteso far riferimento il legislatore del 2001 viene pacificamente considerata equivalente a quella precedentemente richiamata dall’art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, secondo cui l’indennità dovuta all’espropriato doveva consistere «nel giusto prezzo che a giudizio dei periti avrebbe avuto l’immobile in una libera contrattazione di compravendita», e quindi nel valore di mercato del bene, da determinarsi attraverso le indagini e sulla base dei criteri suggeriti dalla scienza estimativa. In quanto volti ad individuare il punto d’incontro tra il prezzo che il proprietario del bene potrebbe accettare per la vendita dello stesso e quello che un eventuale compratore sarebbe disposto a pagare per il suo acquisto, tali criteri tengono certamente conto dell’incidenza delle spese occorrenti per il trasferimento, che si traducono inevitabilmente in un maggior costo per l’acquirente ed in un minore introito per l’alienante, ma non anche delle spese che quest’ultimo sarebbe costretto a sostenere ove volesse procedere alla sostituzione del bene alienato, trattandosi di oneri solo indirettamente ed eventualmente connessi con il trasferimento, e la cui entità può venire in considerazione soltanto ex parte venditoris, quale elemento soggettivo di valutazione della convenienza dell’affare, mentre non assume alcun rilievo nell’ambito della concorrente e contrapposta valutazione del compratore, interessato esclusivamente alle caratteristiche oggettive del bene da acquistare. Significativa, in proposito, è la circostanza che lo stesso criterio del «valore di surrogazione» o «valore di sostituzione», elaborato dalla scienza estimativa quale metodo alternativo per la determinazione del giusto prezzo di un bene, non fa affatto riferimento allo importo che il venditore sarebbe disposto ad accettare in vista della sostituzione dello stesso con un altro bene, ma al costo che il compratore sarebbe costretto a sostenere per l’acquisto o la produzione di un altro bene che presenti la stessa utilità di quello da stimare. In riferimento alla liquidazione dell’indennità di espropriazione, l’individuazione della maggiore spesa che l’espropriato dovrebbe sostenere per l’acquisto e la sistemazione di un altro immobile conforme alle proprie esigenze comporterebbe d’altronde l’introduzione di elementi soggettivi di valutazione, forieri di disparità di trattamento tra proprietari di beni aventi caratteristiche omogenee, e comunque idonei a far sorgere complicazioni nel procedimento di stima, in contrasto con le finalità di semplificazione ed accelerazione che ispirano l’intera disciplina dettata dagli artt. 20-22 del d.P.R. n. 327 del 2001.
La Corte EDU ha peraltro riconosciuto che, nella disciplina dell’indennità di espropriazione, i singoli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento, tanto ai fini della scelta delle modalità di attuazione, quanto ai fini della valutazione della compatibilità, nell’interesse generale, delle relative conseguenze con la necessità di raggiungere l’obiettivo della legge che sta alla base dell’espropriazione, concludendo quindi che, se da una parte la mancanza totale di indennizzo è giustificabile solo in circostanze eccezionali, dall’altra non è sempre garantita dalla CEDU una riparazione integrale. Allo stesso modo, la Corte costituzionale ha sottolineato che l’art. 42 Cost., nel prescrivere alla legge di riconoscere e garantire il diritto di proprietà, ne mette in risalto la funzione sociale, osservando che quest’ultima dev’essere posta dal legislatore e dagli interpreti in stretta relazione con l’art. 2 Cost., che richiede a tutti i cittadini l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale. E’ proprio l’adempimento di tali doveri a giustificare, oltre alla possibilità d’introdurre meccanismi di correzione rispetto al valore venale del bene, la previsione di criteri di determinazione dell’indennità di espropriazione volti a semplificarne la liquidazione, al fine di accelerare la definizione del procedimento ablativo, anche a costo di un limitato sacrificio degl’interessi dell’espropriato, ferma restando l’esigenza che l’importo a quest’ultimo riconosciuto sia «in ragionevole rapporto» con il valore di mercato dell’immobile e costituisca un «serio ristoro» per la privazione della proprietà.
Con ciò non si vuole affatto negare la rilevanza di altri interessi eventualmente coinvolti nella vicenda ablativa, quale il diritto all’abitazione, previsto anche dall’art. 8 della CEDU come risvolto di quello al rispetto della vita privata e familiare, nei cui confronti, tuttavia, la stessa Convenzione ammette l’ingerenza della pubblica autorità, a condizione che la stessa «sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui». La tutela di tale diritto, incluso dalla Corte costituzionale tra quelli fondamentali della persona, come bene primario irrinunciabile per la dignità umana e requisito caratterizzante la socialità cui si conforma lo Stato democratico (cfr. sent. n. 49 del 1987; n. 217 del 1988; n. 252 del 1983), non deve necessariamente trovare spazio in sede di liquidazione dell’indennità di espropriazione, potendo essere affidata anche ad altri interventi, eventualmente collegati alla stessa procedura espropriativa, e volti ad agevolare l’accesso alla proprietà della casa di abitazione, conformemente a quanto previsto dall’art. 47 Cost. Tra questi interventi va annoverato proprio quello previsto dalla legge regionale n. 19 del 1998, ai sensi della quale è stato approvato il piano di riqualificazione urbanistica per la cui realizzazione è stato espropriato l’immobile della ricorrente: l’art. 3 di detta legge, nel prevedere il coinvolgimento dei proprietari degl’immobili interessati dal piano, contemplava infatti il ricorso all’espropriazione soltanto come extrema ratio, per l’ipotesi in cui non si fosse riusciti a raggiungere un’intesa con gli stessi; sostiene la ricorrente che tale intesa nella specie sarebbe stata raggiunta, ma non avrebbe poi trovato attuazione, a causa del ritardo nella realizzazione del piano, che le avrebbe impedito di aderirvi, non disponendo più ella delle risorse necessarie per la partecipazione al progetto di riqualificazione: tale assunto, tuttavia, non solo è rimasto anch’esso totalmente sfornito di prova, ma non potrebbe in alcun modo giustificare le conseguenze che la ricorrente pretende di ricollegarvi, non potendo l’inadempimento della predetta intesa condurre alla liquidazione di una maggiore indennità di espropriazione, ma, al più, all’affermazione della responsabilità del Comune per i danni eventualmente subìti dalla ricorrente.
Quanto infine al deprezzamento dell’immobile espropriato determinato dalla rimozione delle rifiniture asportate dalla ricorrente, la censura da quest’ultima proposta non trova riscontro nella motivazione dell’ordinanza impugnata: la stessa, infatti, nel ritenere eccessivo l’aumento del valore di stima proposto dal consulente di parte, si è limitata a dare atto dello stato in cui il c.t.u. aveva trovato l’immobile, dotato di rifiniture risalenti all’epoca della costruzione e privo di modifiche migliorative apportate dall’attrice, la quale, nel contestare tale accertamento, omette ancora una volta d’indicare gli elementi forniti a sostegno del proprio assunto.
Con il secondo motivo, la ricorrente deduce l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ribadendo che nella liquidazione dell’indennità la Corte d’appello non ha tenuto conto della particolare natura del bene espropriato, consistente nella sua casa di abitazione, e le ha pertanto riconosciuto una somma che non rispecchia né le caratteristiche dello immobile né il suo valore di mercato. La Corte d’Appello ha aderito acriticamente alla stima compiuta dal c.t.u., senza tener conto dell’inadeguatezza delle fotografie allegate e della mancanza di giustificazioni a sostegno del valore unitario indicato e dell’aumento del 10% riconosciuto in relazione alle condizioni di manutenzione ed alle modifiche apportate all’immobile. L’ordinanza impugnata ha inoltre omesso di valutare gli elementi addotti da c.t. di parte nonché di procedere autonomamente alla determinazione dell’indennità, che non deve necessariamente corrispondere al valore di stima, astenendosi anche dall’indicare gli elementi concretamente incidenti sul proprio apprezzamento e di precisare le condizioni degl’immobili assunti come termini di paragone; essa non ha infine considerato che l’appartamento espropriato, oltre ad essere in ottime condizioni di manutenzione, era l’unico ad avere subito modifiche migliorative rispetto all’epoca della costruzione, ed ha omesso ingiustificatamente di valutare l’incidenza dell’intervento di riqualificazione urbana, pervenendo alla liquidazione di un valore unitario inferiore perfino a quello individuato dalla Commissione provinciale espropri.
La Corte di Cassazione ritiene che il motivo sia inammissibile.
La motivazione dell’ordinanza impugnata dà adeguatamente conto delle ragioni poste a fondamento della decisione, richiamando diffusamente i risultati delle indagini compiute dal c.t.u. e condividendone argomentatamente le valutazioni, in modo tale da rendere perfettamente ricostruibile il percorso logico-giuridico seguito per giungere alla determinazione del valore di mercato dell’immobile espropriato. Nel contestare tale apprezzamento, la ricorrente non è stata in grado d’indicare circostanze di fatto eventualmente trascurate dalla Corte territoriale o carenze logiche del predetto ragionamento, ma si è limitata ad insistere sul valore di elementi già presi in considerazione dalla sentenza impugnata, in tal modo dimostrando di voler sollecitare, attraverso l’apparente deduzione del vizio di motivazione, una rilettura degli atti, non consentita davanti alla Suprema Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di controllare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata, nonché la coerenza logica delle stesse, nei limiti in cui le relative anomalie motivazionali sono ancora deducibili con il ricorso per cassazione.

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